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NEURO AMACHE 4



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“M’illumino d’immenso”

Giuseppe Ungaretti

“La poesia, come il sogno, è terra dell’artista, della natura umana; è il

ponte tra conscio e inconscio dove la sovranità della parola detiene la

supremazia per ricomporre i pezzi che compongono il Sé e restituire

un nuovo equilibrio” (Claudio Alciator, 2015).

La parola poesia deriva dal latino pŏēsis e dal greco ποίησις.

Essa si riferisce all’arte del produrre, del fare, del creare ed, in

un senso più ampio, del comporre. Il mondo interiore e la realtà

che ci circonda, per la gran parte inesplorati, grazie alla poesia,

diventano improvvisamente visibili in una mescolanza di pensieri

ed emozioni, di presente e passato, di interiorità ed esteriorità,

nuovi spazi per entrare in contatto con se stessi e gli altri.

È proprio dalla dimensione onirico-fantastica suscitata dal

componimento poetico che, nel 1800, nasce negli Stati Uniti la

Poetry Therapy e viene decretato l’impiego della poesia come

strumento terapeutico. Le prime esperienze vengono maturate

nell’ ospedale psichiatrico della Pennsylvania. In questa struttura

sanitaria si cominciò ad impiegare la lettura di poesie e la scrittura

creativa (Writing Therapy) a scopo terapeutico, per consentire

ai malati di mettere in scena il proprio vissuto attraverso la loro

identificazione nel materiale narrativo. Solo nel 1969 nasce a New

York un’ associazione per l’impiego della poesia come terapia e nel

1973, a Los Angeles, viene fondato il Poetry Therapy Institute.

Gli aspetti fondamentali della terapia con la poesia si basano sul

rispecchiarsi dell’Io nel componimento poetico e la riformulazione

delle esperienze vissute attraverso la parola simbolica per

una liberazione catartica. Quando “guardando la luna” ci

abbandoniamo a noi stessi, siamo spinti ad esprimere ciò che

siamo, a comprendere gli altri, a condividere con loro qualcosa di

noi e della nostra vita. Attribuiamo un significato ed uno scopo alle

attività che intraprendiamo, ai prodotti che creiamo ed ai concetti

che apprendiamo per il nostro benessere fisico ma anche per la

nostra identità sociale.

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Poesia

natura dell’essere

espressione del mondo interiore.

Nasce dal nulla

si colora di mille

mille luci e colori

manifestazioni del sentire.

Racchiude in sÈ

stati d’ animo fugaci

felicità e dolore

vita e morte.



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il momento

nel tempo

e volteggiando

corre

verso l’infinito.

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Dietro ogni composizione poetica, una poesia, un saggio, un dipinto,

etc. c’ è un poeta, uno scrittore, un pittore, una persona reale, che

è viva in senso biologico e socio-culturale, che può influenzare la

comprensione degli altri attraverso la rappresentazione del proprio

sentire. Le recenti scoperte delle neuroscienze dimostrano che il

creare e la soddisfazione che ne deriva ricevono forza d’ispirazione

dalle connessioni con i meccanismi che promuovono la

sopravvivenza fisica e il soddisfacimento corporeo. Scrivere poesie

interpella le funzioni dell’ emisfero destro del cervello, l’area che, per

credenza, è deputata al pensiero creativo in cui le associazioni non

si formano in modo lineare, ma a rete. In questa area cerebrale non

esiste grammatica o sintassi, le parole sono libere e si incontrano

quasi per gioco con condensazioni, neologismi, somiglianze, rime,

metafore, melodie. Poche parole concentrate possono riuscire

a trasmettere in chi le ascolta emozioni forti in cui rispecchiarsi,

perchè “la poesia contempla il mondo con gli occhi dell’anima e

affida alle parole l’eco di ciò che risuona nel proprio intimo”(Luciana

Quaia, 2006).

Nicholas Mazza, uno dei pionieri americani della Poetry Therapy,

definisce la poesia, nel suo libro “Poetry Therapy-Theory and

practice” pubblicato nel 2016, come “l’uso della lingua, dei simboli e

delle storie in ambito terapeutico, educativo e di costruzione sociale”.

Poesia-terapia può essere condotta individualmente o come attività

di gruppo utilizzando particolari tecniche psico-poetiche. Queste

sono selezionate sulla base di un colloquio motivazionale con la

persona che desidera giovarsi di tale metodo e sono finalizzate al

raggiungimento di specifici obiettivi psicologici e comportamentali.

Un percorso di poesia-terapia può avvenire semplicemente

leggendo o ascoltando testi poetici, enunciando ad alta voce testi

poetici propri o di altri, oppure componendoli. In tutti i casi il fine

della poesia-terapia è quello di riattivare o rinforzare il contatto

col proprio e altrui sé, per riportare equilibrio laddove ci sono

scompensi, disarmonie, ferite psicologiche e simboliche. Gli incontri

e le sedute nella maggior parte dei casi avvengono collettivamente

ma possono anche svilupparsi individualmente anche se i percorsi

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Una pagina bianca

una pagina vuota

una pagina di vita

non riempita.

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di gruppo sono da preferire dato che permettono di operare sia a

livello personale che interpersonale, favorendo i processi di mutuo

soccorso. Nella terapia di gruppo il prodotto dell’ artista apre una

comunicazione con il proprio Io, ma anche una comunicazione

interpersonale con chi ascolta. È attraverso l’incontro-scontro

con gli altri, infatti, che il prodotto individuale si arricchisce di

nuovi significati, si vengono a creare le condizioni per cui realtà e

fantasia s’incontrano, mondo interno ed esterno si sovrappongono

e diventano materiale partecipato con momenti di comunicazione

e di confronto. Ogni lavoro è un prodotto spontaneo, non ha lo

scopo di diventare un capolavoro, ma è la semplice espressione di

ciò che ognuno vive dentro di sé e che in quella circostanza riesce a

trasmettere attraverso il progetto creativo, in un momento in cui le

parole e il linguaggio tradizionali non raggiungono lo scopo. Vale la

pena citare l’esperienza di Lilia Binah, direttrice di un centro diurno

per anziani israeliano, che ha raccontato i miglioramenti conseguiti

da soggetti affetti da demenza lieve o sindromi ansioso-depressive

dopo un lavoro di terapia espressiva. L’ analisi di una poesia o di un

racconto aiuta la persona anziana depressa ad esprimere le proprie

emozioni, ad uscire dall’isolamento e riannodare i fili della propria

esperienza esistenziale, rendendo il futuro più accettabile.

La poesia come terapia è uno strumento da privilegiare in età

pediatrica: si parte da uno “stimolo” con una forte carica ludica

e pratica, per poi procedere in percorsi di dizione e scrittura che

richiedono una maggior riflessione e la messa in gioco del sè.

La poesia può essere di aiuto anche per sciogliere problematiche

legate alla prima adolescenza. Può inoltre migliorare la capacità

dell’individuo di gestire le problematiche di salute. Infine può

essere utile per il superamento di un lutto coinvolgendo l’intero

nucleo familiare.

Nella realtà ospedaliera sta riscuotendo un particolare successo

l’iniziativa “Leggere con cura”, un progetto di poetry-therapy per

aiutare i malati a riconciliarsi con la propria patologia attraverso la

“somministrazione” quotidiana di brani poetici.

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del mondo

qualcosa di noi

rimane sempre.

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in una bolla d’aria

o nel vento

che spazza via

le prime foglie

di autunno.

Chi meglio della poetessa Alda Merini (1931-2009) può far capire

l’importanza della poesia per la salute mentale avendo vissuto un

periodo della propria vita in un manicomio?

È sempre vivo il suo “Canto alla luna” (Vuoto d’amore. Ed. Einaudi,

1991) :

La luna geme sui fondali del mare

o Dio quanta morta paura

di queste siepi terrene,

o quanti sguardi attoniti

che salgono dal buio a ghermirti nell’anima ferita.

La luna grava su tutto il nostro io

e anche quando sei prossima alla fine

senti odore di luna

sempre sui cespugli martoriati

dai mantici

dalle parodie del destino.

Io sono nata zingara,

non ho posto fisso nel mondo,

ma forse al chiaro di luna

mi fermerò il tuo momento,

quanto basti per darti

un unico bacio d’amore.

o anche “In cima ad un violino” (da “Clinica dell’abbandono”-

Ed. Einaudi, 2004)

In cima ad un violino

ci sta forse un respiro

che nessuno raccoglie

perchè è un senso d’amore.

Tu suoni per il vento e viaggi

dove la pace sussurra tra le piante

tutta una nostalgia.

Ma la poesia è anche musica, è elevazione del nostro spirito verso

l’Immenso a cercare l’Eterno. “Lascia ch’io pianga mia cruda sorte e

che sospiri la libertà…” sono parole piene di dolore tratte dalla nota

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Aria per soprano di George Friedrich Händel (1705) e riutilizzata

nel secondo atto del Rinaldo (1711). La musica di Händel

riecheggia in una esperienza musicale alle Cascine di Tavola,

dove il Mo Orlando Elia, dirige un gruppo vocale e strumentale

in ricordo della tragedia d’ amore di Sidi e Romana e della loro

unione contrastata che solo la morte potrà rendere eterna (Giacchè,

2019). Nella musica e nel testo il dolore e la tristezza gradualmente

lasciano spazio alla tenerezza e alla consolazione, alla pace dei corpi

e ad una visione dell’ eterno tanto da far vibrare ogni corda del

cuore. I due giovani innamorati, osteggiati dalle famiglie, si dettero

appuntamento nel Parco delle Cascine di Tavola, il giorno 11 marzo

1930, per porre fine al loro dramma amoroso, legando i loro corpi

con spille da balia a simboleggiare la loro unione eterna. La storia

d’amore ricorda la tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta e

il suo drammatico epilogo. Sidi e Romana decidono di unirsi per

l’ eternità nel tragico gesto in un luogo intriso di romanticismo,

immerso in un paesaggio assorto nella natura. In un attimo tanto

profondo come quello del trapasso, c’ è il ritorno alla terra, Madre di

ogni essere umano, pace di tutti i sensi. Cosa ci permette di entrare

in questa storia? Di viverla intensamente? Di farci trasportare dalle

note e di emozionarci?

La capacità di “vedere con gli occhi dell’altro”, nota come empatia,

rappresenta una delle capacità più straordinarie dell’ essere umano,

una facoltà che dimostra come ambiente e relazioni incidano

in maniera rilevante nello sviluppo cognitivo e psicologico di

ogni individuo. La base fisiologica dell’ empatia è rappresentata

dai “neuroni specchio” (mirror neurons), cellule motorie del

cervello che si attivano sia durante l’esecuzione di movimenti

finalizzati, sia osservando gli stessi movimenti eseguiti da altri

individui. La scoperta di questi neuroni avvenuta nel 1991 fu

sensazionale ed inaspettata. Un team di ricercatori dell’Università

di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti e composto da

Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese e Giuseppe Di

Pellegrino, studiando i neuroni dell’area motoria F5 nella scimmia

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a “ Le Cascine di Tavola”

Poesia e Musica

si fondono

in un ultimo

abbraccio mortale.

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,,,,,, (Aria per soprano di George Friedrich Händel, 1705)

“Lascia ch’io pianga mia cruda sorte e che sospiri la libertà…”

notarono come una specifica classe di essi, successivamente

denominati “neuroni specchio”, si attivava sia quando la scimmia

vedeva un oggetto in movimento sia quando osservava una persona

compiere quel gesto. Ciò dimostra che il nostro sistema motorio

codifica uno scopo e questo è uno degli aspetti peculiari dei

neuroni specchio. Negli esseri umani, l’attività cerebrale coerente

con quella di questi neuroni è stata trovata nella corteccia pre-

motoria, nell’area motoria supplementare, nella corteccia somato-

sensoriale primaria e in quella parietale inferiore (Fogassi, 2008).

La particolarità dei neuroni specchio è quella di attivarsi senza

ricorrere a processi logici-inferenziali, e riguarda la capacità di

“comprendere l’altro”, come se “l’altro fossimo noi stessi”.

Il meccanismo “specchio” si attiva non solo all’osservazione di un

movimento ma anche per emozioni e sensazioni provate da una

diversa persona, indipendentemente dalla loro natura reale o fittizia.

Questa scoperta rivela il procedimento naturale che ci rende

sociali: tale meccanismo è comunque influenzato dal vivere sociale

(Rizzolatti, 2007). Il fatto di attivarsi in relazione a ciò che una

differente persona sta facendo denota lo stretto legame esistente tra

neuroni specchio ed emozioni. Questo legame è stato dimostrato

da esperimenti condotti su emozioni quali il disgusto e il dolore

(Rizzolatti e Sinigallia, 2006). I risultati hanno dimostrato che la

stessa area del cervello si attiva sia quando proviamo una specifica

emozione sia quando vediamo un’ altra persona che sta avvertendo

quella stessa emozione (nel caso del disgusto è interessata una

zona della corteccia detta insula). Questa scoperta rafforza quello

che è il concetto di empatia: una comunanza di emozioni tra

più persone a dimostrazione della similarità nella alterità. Noi

riusciamo a comprendere gli altri perché quello che sentono ha una

risonanza nella nostra intimità, perché anche noi abbiamo vissuto

o viviamo le stesse esperienze. Il correlato biologico dell’empatia

è rappresentato proprio dal comportamento dei neuroni specchio,

il cosiddetto “sistema specchio”. La scoperta di questi neuroni ha

permesso di rivedere e rileggere sotto una lente diversa i disordini

dello spettro autistico. Alterazioni nello sviluppo e specializzazione 137

Lasciamo che muoia

il nostro giovanile amore…

…viva solo il ricordo

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di primavera.

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a “Le Cascine di Tavola”

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del sistema specchio sembrano portare ad un cascata di difficoltà

evolutive tipiche della sindrome autistica che coinvolgono

l’incapacità di imitare specifiche azioni e il riconoscimento di

intenzioni motorie. Queste difficoltà si traducono in un’incapacità

di comunicazione ed interazione con gli altri. La principale

anomalia nell’autismo è dovuta ad un deficit della “teoria

della mente”, “un’abilità evolutiva che consente di acquisire

gradualmente le competenze necessarie a comprendere l’altro

come soggetto dotato di stati mentali diversi dai propri” (Uta Frith

e Simon Baron-Cohen, 1985). La “teoria della mente” presuppone

la capacità di “mentalizzare” ovvero di attribuire stati mentali

(sentimenti, pensieri, credenze e desideri) a se stessi e agli altri

al fine di prevedere il proprio comportamento e quello degli altri

(empatia).

“Se io mi immedesimassi nei tuoi pensieri, come tu ti immedesimi

nei miei, non avresti bisogno di fare la tua domanda, avresti già la

risposta”.

Con queste parole in versi “Già non attenderÈ io tua dimanda s’io

mi intuassi, come tu t’inmii” il sommo poeta Dante Alighieri si

esprime nel IX canto del Paradiso (73-81) evidenziando la grande

capacità dell’ essere umano di “essere con l’altro”.

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Cosa sappiamo oggi del rapporto fra amore, sessualità e cervello?

Siamo fatti di emozioni, memoria di luoghi e fatti vissuti, ormoni

e neurotrasmettitori che contribuiscono all’innamoramento e al

consolidamento di legami affettivi.

Stimoli sensoriali visivi, tattili, olfattivi, uditivi, gustativi possono

attivare e influenzare l’amore e la sessualità. A loro volta i pensieri,

i sentimenti, le emozioni, la memoria di fatti vissuti possono

stimolare la creatività e quindi le arti visive, la musica e la poesia

nelle quali sono sempre in gioco neurotrasmettitori cerebrali.

Voltaire sosteneva che «l’amore è di tutte le passioni la più forte

perché attacca contemporaneamente la testa, il cuore, il corpo».

Esistono fattori biologici che possono spiegare ciò che accade nella

nostra psiche e nel nostro organismo, quando ci innamoriamo.

Ciò che definiamo amore fa parte di un lungo percorso, definito

«processo di attaccamento», il quale prevede che un rapporto di

coppia si costruisca attraverso trasformazioni continue ed un

meccanismo a tappe in cui sono coinvolte specifiche aree cerebrali

e numerosi mediatori chimici (Attili, 2017). Quando siamo attratti

da una persona, alla fase di attrazione può seguire l’innamoramento

che può concretizzarsi in amore profondo ed in un forte “legame di

attaccamento”. I possibili substrati anatomici dell’amore sono oggi

studiati con moderne tecniche quali la tomografia ad emissione di

positroni (PET).

Ma cos’ è l’amore?

Amore romantico, platonico, spirituale, coniugale, materno, filiale,

fraterno, sessuale come dono di sÈ ed accoglienza generosa dell’altro

sono tutte sfaccettature dell’amore. Partecipano alla condizione

amorosa stimoli visivi, tattili, odorosi, uditivi. Tutto quanto viene

registrato dagli organi di senso e trasmesso al cervello può indurre

reazioni fisiologiche. L’ amore è un sistema integrato bio-psico-

sociale perchè coinvolge l’uomo nella sua interezza biologica,

psicologica e sociale e promuove la vicinanza tra due persone atta a

favorire la riproduzione della specie, ma anche un senso di sicurezza,

di gioia, di benessere ed emozioni positive (Marazziti, 2017).

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La Neurobiologia dell’amore: “il cervello in amore”

Dal cervello e solo dal cervello derivano le nostre emozioni, piacere,

gioia ma anche tristezza, pena, dolore e paure.

Fino dall’ Ottocento emozioni e sentimenti sono diventati oggetto

della ricerca scientifica insieme allo studio dei meccanismi

biologici delle emozioni. La consapevolezza moderna ci dice che il

corpo è il teatro delle nostre emozioni, non può esistere uno stato

d’animo senza una stretta cooperazione tra sistema nervoso ed

organi periferici. Così, sappiamo di essere innamorati perché ce lo

dice il cervello, che interpreta nella maniera giusta “il batticuore”,

le cosiddette “farfalle nello stomaco” o il senso di svenimento che

si manifestano in presenza di una persona oggetto delle nostre

attenzioni o anche solo pensando ad essa. Anche se l’amore nasce

nel cervello, senza sintomi periferici non ci sarebbe nulla da

interpretare (Marazziti, 2017).

Ma che cosa scatena la scintilla amorosa, “l’innamoramento” ?

Quali sono i suoi meccanismi neurobiologici?

La neurobiologia dell’amore è, almeno in parte, espressione della

liberazione di sostanze chimiche a livello cerebrale, dall’ipotalamo

ed in particolare dal nucleo accumbens. È questo il centro del

piacere più istintivo, responsabile di pulsioni biologiche ed

in grado di attivare l’amigdala e l’ippocampo mediante i suoi

neuroni dopaminergici. La liberazione di dopamina determina la

condizione di euforia. La diminuzione della serotonina giustifica

l’ ossessività. Gli aspetti romantici dell’amore invece possono essere

controllati dal fattore di crescita nervosa NGF (Nerve Growth

Factor) come osservato da Emanuele et al. (2006, 2011) e dallo

studio delle molecole coinvolte nell’espressione dei comportamenti

sociali e di affiliazione. Il ricercatore, studiando i cambiamenti nei

livelli di neurotrofina plasmatica in soggetti con amore romantico

in fase iniziale, ha osservato un’ associazione positiva fra l’iniziale

intensità dei sentimenti romantici ed i livelli sierici di NGF. Nello

studio che ha coinvolto 58 soggetti innamorati, a confronto

con single e individui impegnati in una relazione amorosa

duratura, i livelli di NGF risultavano più elevati nei primi. Dopo

12-24 mesi tuttavia i valori della molecola sono diminuiti rispetto

alla valutazione iniziale e sono risultati indistinguibili da quelli dei

gruppi di controllo.

(NGF è la molecola scoperta nel 1952 dalla scienziata Rita Levi

Montalcini, premio Nobel per la medicina nel 1986, studiando

embrioni di pollo nei quali aveva innestato un tumore maligno

di topo. È un fattore in grado di potenziare i processi di crescita e

differenziazione dei neuroni. Tra le numerose attività svolte da NGF

la più importante è quella di modulare e coordinare l’attività dei tre

sistemi essenziali dell’organismo umano: il sistema nervoso, quello

endocrino e quello immunitario. La molecola ha anche un ruolo in

malattie neurodegenerative quali il morbo di Alzheimer).

Anche altre molecole quali l’ ossitocina e la vasopressina entrano in

gioco nella neurobiologia dell’amore. Le due sostanze sono prodotte

nei nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo. Da questa

area vengono trasportate per via neuronale nel lobo posteriore

dell’ipofisi e poi rilasciate nel flusso ematico per raggiungere gli

organi bersaglio. Pertanto esse funzionano con due modalità e

cioè come ormoni nel circolo ematico e come neurotrasmettitori

nel sistema nervoso centrale. Molti studi sull’ossitocina e sui suoi

effetti sull’ organismo e sul comportamento umano si devono

alla fisiologa Kerstin Uvnäs Moberg al prestigioso Karolinska

Institute a Stoccolma. L’ ossitocina è il punto centrale del sistema di

calma e connessione che si contrappone al sistema di attacco o fuga

governato dall’adrenalina. Il neurotrasmettitore riduce il livello di

ansia, induce calma, abbassa i livelli di cortisolo, riduce la pressione

arteriosa, la frequenza cardiaca e l’intensità del dolore, migliora la

digestione e l’assorbimento dei nutrienti. Anche pensieri e ricordi

felici possono avviare il sistema di calma e connessione.

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L’ ossitocina è coinvolta in fenomeni che sono peculiari dei

mammiferi, quali le contrazioni uterine durante il parto e la

secrezione del latte durante l’allattamento. L’ ossitocina, inoltre,

sembra fondamentale per lo sviluppo del comportamento materno:

infatti è coinvolta nei processi di attaccamento. Se iniettata

direttamente nel cervello, riduce l’ansia da separazione nei cuccioli

e facilita il riconoscimento dell’ odore materno. La vasopressina

invece come ormone antidiuretico agisce nella regolazione dei

liquidi corporei e sembra essere maggiormente coinvolta nel

comportamento paterno.

Le “tappe” dell’amore:

L’ attrazione: prima fase del rapporto amoroso

Amor ch’a nulla amato amor perdona, mi prese de costui

piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’ abbandona. (Paolo e

Francesca, V canto dell’Inferno. Dante. La Divina Commedia).

La formazione di una coppia è un’esperienza umana illogica, caotica

e imprevedibile. Non sappiamo come mai una persona qualsiasi

improvvisamente diventa oggetto delle nostre continue attenzioni

e dei nostri pensieri. In questa prima fase si produce nel nostro

organismo un’ eccitazione che è mediata da neurotrasmettitori

quali l’ epinefrina, la norepinefrina, la feniletilamina, la dopamina.

La feniletilamina è particolarmente importante perché stimola

il rilascio di dopamina, la quale ha un peso determinante nelle

prime fasi della relazione di coppia, e ha un ruolo importante

anche quando siamo innamorati. L’interazione tra feniletilamina

con epinefrina e norepinefrina provocano gli stessi effetti che si

hanno quando siamo impegnati in sport estremi e siamo euforici.

Le sensazioni viscerali del baciare o vedere la persona di cui siamo

innamorati attiva l’insula, che è un’area deputata al monitoraggio

dello stato fisiologico del corpo ed elabora alcuni segnali quali

il “sobbalzare” del cuore, la profondità del respiro, il senso di

debolezza nelle gambe. L’ insula regola le emozioni di base quali la

felicità, la tristezza, la paura, l’ansia e ha un ruolo importante nella

gestione del dolore.

È l’insula che invia segnali di sicurezza e benessere emotivo, per

esempio quando siamo accarezzati con amore. Alla vista o al ricordo

della persona amata, si attivano le aree cerebrali anatomicamente

collegate che costituiscono il sistema dopaminergico mesolimbico

ovvero il «sistema della ricompensa» o reward system.

Le aree coinvolte sono il corpo striato e l’area ventrale tegmentale.

Il corpo striato è attivato non solo da stimoli associati alla

ricompensa ma anche da stimoli di avversione, nuovi o inattesi in

base all’importanza che ricoprono. L’ area tegmentale ventrale, è

il centro cerebrale del piacere, che ci aiuta a riconoscere quando

qualcosa è buono fisiologicamente o quando si assumono sostanze

stupefacenti. La sensazione di volere stare sempre con la persona

di cui siamo innamorati, induce la produzione di dopamina

che è aumentata in seguito all’attivazione delle aree del sistema

dopaminergico e che a sua volta potenzia gli esiti della produzione

di feniletilamina. Altri neurotrasmettitori quali la serotonina sono

coinvolti nelle prime fasi dell’innamoramento. Nelle relazioni non

consolidate si riducono i livelli di questo neurotrasmettitore e si

producono stati di forte ansia mentre, quando i livelli di serotonina

sono in equilibrio, essa produce sensazioni positive e regola le nostre

emozioni. Nella fase di innamoramento all’attivazione delle parti

del cervello coinvolte nel sistema dopaminergico, si accompagna la

disattivazione di altre aree, come una riduzione delle aree frontali

che regolano il senso critico e le emozioni. In particolare è la

corteccia prefrontale, l’area cerebrale preposta al ragionamento,

al giudizio, all’inibizione di risposte irrilevanti, a non attivarsi

“il cervello in amore ha ragioni che la ragione non comprende”.

Si disattiva anche l’amigdala, che si accende quando si avverte la

paura. L’innamoramento infatti non fa percepire la paura e ciò

espone a situazioni di rischio pur di stare con la persona oggetto

del proprio desiderio. Nelle prime fasi della relazione si verifica la

disattivazione delle aree che si accendono in presenza di emozioni

negative o sensazioni depressive come parti della corteccia medio

temporale e della corteccia cingolata posteriore.

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Ecco perché nella fase iniziale dell’innamoramento la sensazione

che viene provata è di vivere in una sorta di infinito benessere

emotivo (Attili, 2017).

L’ attaccamento: seconda fase del rapporto amoroso

…tu mihi, siqua fides, cura perennis eris; tecum, quos dederint annos

mihi fila sororum, vivere contingat teque dolente mori…

…se mi concederai fiducia, tu sola sarai l’eterno mio pensiero; possa io

vivere con te gli anni che mi concederanno i fili delle Parche e possa io

morire suscitando il tuo dolore (Ovidio, Amores 1,3).

Stare insieme all’altro, conoscerlo sempre di più, condividerne

la vita quotidiana e l’intimità sessuale portano all’ affievolirsi

dell’esaltazione tipica dell’innamoramento, o meglio, la

trasformano,se si considera l’amore come un processo dinamico.

Secondo l’opinione di numerosi studiosi l’innamoramento non

sembra durare più di tre anni, escluso situazioni in cui i partner

hanno poche possibilità di incontrarsi e stare insieme. I meccanismi

che subentrano a quelli dell’attrazione e che garantiscono la durata

del rapporto, spesso per tutta la vita, sono quelli dell’attaccamento.

Dopo la tempesta dell’innamoramento assaporiamo la dolcezza

e la serenità, la gioia di condividere la vita con una persona che

sembra adattarsi perfettamente a noi. Senza dubbio l’attaccamento

rappresenta l’ essenza dell’amore e deriva dalla conoscenza e dal

sentirsi legati all’altro (Marazziti, 2017). Sul piano biologico, il

passaggio dall’innamoramento all’ attaccamento implica l’entrata in

gioco di nuovi meccanismi, in particolare l’attivazione dell’amigdala

che favorisce alterazioni a lungo temine che fanno scattare il

processo di attaccamento.

Ma in che misura e secondo quali modalità gli organi di senso

intervengono “nell’accendere” la miccia dell’innamoramento?

Gli stimoli sensoriali:

La vista

Stimoli visivi sembra siano legati soprattutto alla sfera intima

maschile. Il contatto visivo è sicuramente importante anche nella

fase della seduzione. Nella vita sociale grande centralità hanno le

espressioni del volto; questo aspetto è dimostrato anche dal numero

delle aree cerebrali deputate alla regolazione e al loro riconoscimento

che coinvolgono il lobo temporale e l’amigdala. L’innamoramento

scatta, come riportano sondaggi effettuati intervistando persone

innamorate, dal momento in cui sono attratti da una caratteristica

del partner percepita attraverso la vista.

Il Tatto

La pelle è l’organo più esteso del corpo umano, ampiamente

rappresentato a livello cerebrale. Essa è in grado di trasmettere

continuamente informazioni dal mondo esterno al sistema

nervoso. Il contatto fisico e le carezze provocano il rilascio di

ossitocina negli animali ed anche negli esseri umani. I livelli di

questa sostanza aumentano nel sangue e nel cervello in risposta

alla stimolazione tattile. Il contatto fisico è in grado di creare un

legame affettivo fra le persone. Il massaggio al seno ed il contatto

pelle a pelle fra madre e bambino determinano picchi di ossitocina.

Questa sostanza interagisce con il sistema di ricompensa indotto

dalla dopamina e dalla serotonina che determinano dipendenza

affettiva fra il neonato e chi lo accudisce. In una relazione in cui

vi sia un contatto reciproco gradevole si può instaurare un forte e

durevole legame. I livelli di ossitocina aumentano nel sangue anche

con il bacio e con l’attività sessuale tanto che questa sostanza è

stata definita l’ormone dell’amore. Essa inoltre è responsabile del

rilassamento dopo un amplesso. Il tatto è definito il “padre dei

cinque sensi” e ogni cultura ha stabilito dei limiti codificati su chi

si può toccare, dove e quando.

Gli stimoli odorosi

Il sistema olfattivo è deputato alla elaborazione degli stimoli

odorosi ed è il più antico organo di senso. Molecole volatili

disperse nell’ambiente possono raggiungere ed attivare i recettori

olfattivi localizzati a livello del tetto delle cavità nasali. La prima

elaborazione dei segnali avviene nei neuroni del bulbo olfattivo

situato all’interno della scatola cranica. Dal bulbo i segnali vengono

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inviati alla corteccia olfattiva primaria (piriforme) ed ai centri

specializzati. L’ area del cervello che elabora gli stimoli olfattivi

è strettamente connessa con il sistema limbico (l’olfatto è l’unico

senso gestito dal sistema limbico e non dal talamo), tanto che tali

stimoli si legano alle emozioni. Anche qui entra in gioco l’ossitocina

i cui effetti possono essere trasmessi non solo con il contatto fisico

fra due persone ma anche attraverso l’odorato. Il sistema olfattivo

inoltre riconosce ferormoni (o feromoni) cioè sostanze chimiche

che vengono trasmesse attraverso l’aria da un individuo all’altro. La

maggior parte dei ferormoni agisce stimolando l’organo dell’olfatto

e, in particolare, una porzione di esso che si chiama organo vomero-

nasale. Tali composti sono prodotti da ghiandole esocrine e sono in

grado di inviare segnali ad altri individui della stessa specie.

I ferormoni sessuali, trasmessi a seguito di stimoli tattili o olfattivi,

pur non essendo percepiti come sostanze odorose, provocano

stimolazione sessuale in altri individui e vanno ad attivare le aree

cerebrali legate alle emozioni. L’ odore è anche il veicolo della

memoria olfattiva e del ricordo: evoca stati affettivi, ricordi ed

emozioni. Ciò è dovuto alla forte connessione anatomica fra l’

olfatto e le strutture coinvolte nelle emozioni e nella memoria

(ippocampo e amigdala).

L’ udito

La melodia delle parole e dei suoni, di una voce calda e modulata

possono accendere il desiderio amoroso. Anche l’ascolto di un

brano musicale ricco di ricordi può esercitare un effetto analogo.

Il ruolo dell’amigdala nell’integrazione degli stimoli sensoriali

Tutti gli stimoli sensoriali arrivano ad un crocevia fondamentale

ovvero all’amigdala, quella zona del lobo limbico che se asportata

conduce ad una condizione denominata “cecità affettiva”, vale a

dire l’incapacità di avvertire le emozioni e di reagire coerentemente

ad esse. Quando viene stimolato un organo di senso si attivano

due vie che vanno a convergere nell’amigdala: una via più breve

e veloce, che va direttamente dal talamo all’amigdala e una via che

dal talamo va alla neocorteccia. Questa seconda via esegue una

148

elaborazione più complessa e consapevole degli stimoli ricevuti e

induce risposte più organizzate. L’ amigdala informa continuamente

le aree cerebrali superiori di quanto sta avvenendo e queste, a loro

volta, forniscono la consapevolezza dell’innamoramento.

L’ empatia nelle relazioni amorose

L’ empatia è la capacità di entrare in sintonia e in risonanza con gli

stati emotivo-affettivi dell’altro. Essa è fondamentale per instaurare

una relazione amorosa ed è in grado di facilitare il coinvolgimento

e la crescita della coppia. All’interno di una relazione amorosa è

importante mantenere una comunicazione attiva e una progettualità

continua accanto ad una corretta sessualità. L’ empatia coinvolge il

ruolo dei neuroni specchio, attraverso uno scambio sincrono delle

emozioni.

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neuroscienze


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151

Le nuove frontiere delle neuroscienze: tra relazioni sociali,

creatività artistica ed apprezzamento estetico

Il cervello è la struttura più complessa dell’Universo, composta da

cento miliardi di neuroni e da una fittissima rete di connessioni.

Da sempre ha affascinato l’Uomo e per questo nel corso della

storia è stato oggetto di innumerevoli speculazioni filosofiche e

scientifiche e da Cartesio in poi la storia delle neuroscienze è un

intreccio continuo tra indagine scientifica e riflessione filosofica.

Oggi, le neuroscienze costituiscono il punto di contatto e di incontro

tra scienziati, medici, filosofi, artisti, biologi, fisici, sociologi e in

generale tra tutti coloro che sono interessati al rapporto tra mente e

cervello e si interfacciano con campi affascinanti come la religione,

la morale, la letteratura, l’arte, le scienze sociali e la giurisprudenza.

Lo studio e la ricerca scientifica in questi ambiti si propongono

di fornire nuove risposte a vecchie domande fondamentali, che

accompagnano la riflessione dell’Uomo sul senso della propria

esistenza. In questo ampio dibattito dove i tradizionali saperi

umanistici e scientifici confluiscono, le neuroscienze si avvalgono

essenzialmente di un approccio riduzionistico nello studio

dell’attività cerebrale, cioè di una modalità in base alla quale tutto

ciò che esiste è nient’altro che un insieme di entità descrivibili

in termini fisici. Tutto ciò favorisce una serie di riflessioni e

considerazioni che ci potrebbero portare anche a rivoluzionare le

nostre idee morali e l’idea stessa di Uomo come essere razionale

e con una autonomia di pensiero. Seguendo questa traccia sono

molteplici i possibili approcci ma in questo assunto cercherò di

rappresentare, l’incontro tra saperi antichi come le scienze

sociali, la creazione e la fruizione artistica con le scoperte sul

funzionamento del cervello e come questo aumenti il bagaglio delle

nostre conoscenze, senza però diminuire il peso delle incertezze.

L’Uomo è un animale sociale e la relazione interpersonale fa parte

del nostro patrimonio genetico, ma lo sviluppo è certamente

condizionato essendo influenzato e plasmato dalla qualità e dalla

quantità di relazioni che noi sperimentiamo durante il nostro

152

accrescimento somatico e soprattutto psico-affettivo. Basti pensare

alle evidenze scientifiche sull’importanza dell’interazione madre –

figlio fin dalle prime ore dopo la nascita e di come queste determinino

differenze rilevanti nei futuri tratti comportamentali. In particolare,

è stato dimostrato che gli individui con ricche relazioni perinatali

fossero più predisposti ad avere nel futuro atteggiamenti pro –

sociali. Robin Dunbar, direttore dell’Institute of Cognitive and

Evolutionary Anthropology dell’università di Oxford, suggerisce

una stretta relazione tra il rapporto del volume dell’isocortex

(la parte di cervello più evoluta, enormemente sviluppatasi nei

primati) e il resto dell’encefalo da una parte e la dimensione del

gruppo sociale e la complessità delle relazioni sociali dall’altra.

Il numero di Dunbar è una quantificazione del limite cognitivo

teorico che concerne il numero di persone con cui un individuo è

in grado di mantenere relazioni sociali stabili, ossia relazioni nelle

quali un individuo conosce l’identità di ciascuna persona e come

queste persone si relazionano con ognuna delle altre.

Ma in che misura il grado di socialità è influenzato dal patrimonio

genetico o dalla più o meno fitta rete di relazioni che il soggetto

costruisce nel corso della propria esistenza è difficile definirlo.

Sono stati condotti tanti studi per analizzare il funzionamento

del cosiddetto cervello sociale ed in questo ambito la scoperta più

sensazionale la si deve certamente ad un gruppo di ricerca italiano,

quello del prof. Giacomo Rizzolatti di Parma. Queste ricerche ci

dicono infatti che quelle parti del nostro cervello che, fino a non

molti anni fa, ci sembravano deputate solamente a controllare i nostri

movimenti sono anche molto rilevanti nell’aiutarci a decodificare

l’agire altrui. Per usare un’ espressione di un altro protagonista di

queste sensazionali scoperte, il prof. Vittorio Gallese: “In parole

povere oggi sappiamo che aree del nostro cervello che si attivano

durante l’esecuzione di movimenti motivati dal conseguimento di

certi scopi (per esempio, la mia mano che afferra un bicchiere per

prenderlo e portarlo alla bocca per bere), contengono neuroni – i

neuroni specchio – che si attivano anche quando siamo testimoni

153

di analoghe azioni eseguite dagli altri. Il nostro ruolo di spettatori

è molto meno passivo di quanto non si ritenesse trent’anni fa o di

quanto molti ritengano ancora oggi”. Allo stesso modo abbiamo

imparato che le aree del nostro cervello che si attivano quando

il nostro corpo viene, per esempio, accarezzato o schiaffeggiato

vengono attivate anche quando vediamo accarezzare o schiaffeggiare

il corpo di un altro. Le stesse aree e circuiti che si attivano quando

proviamo fisicamente una sensazione dolorosa si mettono in

funzione anche quando siamo testimoni di una sensazione dolorosa

esperita da chi ci sta di fronte. Abbiamo dunque una base biologica

condivisa, che si attiva quando siamo attori dell’esperienza, ma

anche quando ne siamo solo testimoni.

Charles Darwin nel suo libro forse più ricco di spunti per chi si

occupa di neuroscienze del comportamento, “Le espressioni delle

emozioni nell’Uomo e negli animali”, aveva già intuito che esiste

una modalità di comunicazione interindividuale delle emozioni

di base (paura, rabbia, disgusto, ecc.) che è universale, uguale

per tutti. Adesso la scoperta dei neuroni a specchio ci fornisce il

substrato neurobiologico di questa grande intuizione darwiniana.

La scoperta dei neuroni a specchio ci fornisce oltre che una decisiva

ed epocale conoscenza sul funzionamento del cervello motorio

anche eccezionali spunti interpretativi di concetti chiave come

l’empatia sociale e l’apprezzamento estetico. L’ empatia sociale è la

capacità di comprendere, nel profondo, lo stato d’animo altrui ed

etimologicamente significa sentire dentro. Il concetto non significa

solo mettersi nei panni dell’altro, ed andare verso l’altro, ma anche

portare questi nel proprio mondo. È quindi, in altre parole, la

capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i

pensieri e gli stati d’animo di un’altra persona. È una modalità

di comunicazione nella quale il ricevente mette in secondo piano

il suo modo di percepire la realtà per cercare di far risaltare in

sé stesso le esperienze e le percezioni dell’interlocutore. È una

forma molto profonda di comprensione dell’altro perché si tratta

d’immedesimazione negli altrui sentimenti. Ci si sposta da un

154

atteggiamento di mera osservazione esterna (di come l’altro appare

all’immaginazione) al come invece si sente interiormente (in quei

panni, con quell’esperienza di vita, con quelle origini, cercando di

guardare attraverso i suoi occhi). Quindi così come l’atto motorio

che viene osservato coinvolge gli stessi neuroni che si attivano

quando sono, essi stessi, gli esecutori di quel movimento, anche

l’ascolto e l’osservazione del racconto di un’altra persona, che ci

suscita riflessioni ed emozioni, può farci vivere tutto ciò come se lo

vivessimo noi direttamente. Ascoltare una persona che ci comunica

concetti e storie complesse è evidentemente un’ operazione cerebrale

molto più complicata dell’osservare un atto motorio semplice,

come ad esempio il gesto nel muovere un arto. Infatti, il processo

comunicativo implica l’attivazione di aree cerebrali deputate a

funzioni cognitive superiori come la capacità di analisi e di astrazione

del concetto, oltre che a funzioni di tipo affettivo ed emozionale.

È possibile che questa complessità di connessioni ed integrazioni

cerebrali renda molto difficile un ascolto empatico che è una qualità

non comune. Quando riusciamo ad essere empatici apriamo,

con il nostro interlocutore, un solido canale di comunicazione e

comprendiamo quanto sia importante non solo ascoltare, ma anche

mettersi dall’altra parte e provare ad analizzare il contesto anche

con un punto di vista diverso dal nostro. Anche l’apprezzamento

estetico non è un atto passivo ma un processo che stimola e mette

in funzione tutta una serie di aree cerebrali. Gli studi che si sono

sviluppati intorno a questo tema hanno dato vita ad un settore delle

neuroscienze che ha preso il nome di neuroestetica. Questi aspetti

che da un punto di vista filosofico riguardano non solo il confine

tra arte ed emozione, ma anche tra anima e corpo, secondo un

approccio neurobiologico studiano i meccanismi della percezione,

ed in particolare di come l’opera d’arte viene creata e fruita, con

l’ambizione di scoprire nuovi aspetti del funzionamento della nostra

mente. In pratica questa nuova disciplina delle neuroscienze vuole

comprendere i meccanismi scientifici che consentono all’artista di

immaginare, costruire associazioni, creare, ma anche a noi tutti

155

di emozionarci davanti ad un’opera d’arte. Fin dalla notte dei tempi,

l’Uomo si è caratterizzato per la creatività espressa attraverso le

arti come la musica, la scultura e la pittura e le diverse espressioni

artistiche sono accomunate dal fatto di comunicare in maniera

universale, attraverso meccanismi fisiologici comuni e presenti

in tutta la specie, in assenza di una comprensione mediata dal

linguaggio. Il termine Neuroestetica viene usato per la prima volta

nel 2001 dal neurofisiologo della visione, Semir Zeki, professore di

neurobiologia allo University College di Londra e muove da alcune

premesse generali, secondo le quali le arti visive devono obbedire

alle leggi del cervello visivo, sia nella fruizione sia nella creazione

e sono un’estensione dello stesso cervello visivo che ha la funzione

di acquisire nuove conoscenze. Secondo questo approccio gli

artisti sono in un certo senso ed involontariamente dei ricercatori

che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari.

Nell’estetica tradizionale si fa sempre riferimento al processo

affettivo e psicologico che scaturisce dall’incontro con l’oggetto, la

neuroestetica invece riconosce che nella percezione intervengono

processi inconsci di memorizzazione che sono uguali per tutti e

probabilmente la risonanza emozionale prodotta dall’oggetto

osservato è il risultato di processi “costanti” presenti nel nostro

cervello. L’opera d’arte nel momento in cui viene contemplata,

viene percepita, riconosciuta e analizzata prima di tutto nelle sue

caratteristiche strutturali e poi scaturisce la risposta emotiva. Il

cervello che dipende dai processi della visione cerca di rappresentare

le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti,

superfici, volti e situazioni e così via, ossia esegue un processo di

astrazione e generalizzazione. Pertanto, la domanda che ci possiamo

porre è se esistono delle forme universali e se la neuroestetica cerca,

con un approccio scientifico, di rispondere a questa domanda.

Ritorna quindi il dualismo tra patrimonio genetico ed influenze

ambientali e viene da chiedersi in che misura le emozioni che

proviamo di fronte ad un’ opera artistica siano la conseguenza di

meccanismi universali propri della visione ed in che misura siano

156

indipendenti o determinate dai condizionamenti culturali.

Quindi il concetto di empatia è presente anche nella fruizione di

un’opera d’arte. Infatti, quando vediamo un quadro, una scultura

o ascoltiamo una musica che ci coinvolge sviluppiamo anche una

capacità di sentire il contenuto emozionale dell’opera e in alcuni

casi di condividere ciò che l’artista provava nell’atto creativo.

Guardando un’ opera d’arte possiamo rimanerne affascinati

ed immediatamente, senza rendercene conto, cerchiamo di

interpretarne il “senso”, o semplicemente siamo attratti dalle linee e

dai colori. In ognuno di noi si sviluppano emozioni più o meno forti,

stati d’animo a volte travolgenti che inevitabilmente sottendono o

meno l’esperienza estetica del bello. I sentimenti, i ricordi, il piacere

che possiamo percepire, possiedono un forte carattere individuale,

essendo collegati a diverse componenti: genetiche, ambientali e

formative. Quindi possiamo discutere ed appassionarci su quanto

queste componenti abbiano un ruolo più o meno preponderante,

ma questa variabilità rimane ancora un campo scientifico quasi del

tutto sconosciuto. Gli studi scientifici hanno identificato, invece,

il processo di origine di alcune percezioni elementari e comuni in

ognuno di noi. Certamente, queste sono influenzate dal contesto

(ad esempio quando un quadro è esposto in una galleria d’arte

piuttosto che in un appartamento), dall’interesse che suscita l’opera

osservata e dalle esperienze personali. Se quindi affermiamo che

il concetto di bellezza esiste dentro di noi, possiamo discutere

su quanto e come l’oggetto a cui questo concetto viene associato

possa variare. La ricerca scientifica ci suggerisce che il nostro

sistema visivo, osservando la realtà, compie una continua ricerca

delle proprietà costanti della stessa e filtra attraverso l’attività del

cervello gli elementi essenziali al di là della continua mutevolezza

del reale. L’artista parallelamente evidenzia nella creazione della

sua opera quelle caratteristiche della realtà indispensabili alla

sua rappresentazione con le caratteristiche invarianti, in modo

rigoroso, e non continuamente mutevole come la vediamo.

Matisse, descrivendo le proprie opere, diceva: “Al di sotto di quella

157

successione di istanti che costituisce l’esistenza superficiale delle

cose e degli esseri, e che di continuo li modifica e li trasforma,

si può cercare un carattere più vero ed essenziale per dare

un’interpretazione più duratura della realtà”. L’attenzione di alcuni

artisti per le geometrie e le forme astratte va al di là delle loro

conoscenze matematiche e si può assimilare agli esperimenti per

ridurre l’insieme delle forme all’essenziale per cercare l’essenza di

una forma così come è rappresentata nel cervello a seconda della

propria percezione visiva. Quindi l’intuito e la creatività dell’artista

si concretizzano attraverso attività cognitive che selezionano gli

attributi essenziali della realtà e li trasferiscono nell’opera d’arte.

Pertanto, così come il nostro cervello apprende attraverso l’analisi

e la registrazione delle qualità costanti ed essenziali, anche nella

produzione artistica vi può essere in maniera istintiva il tentativo

di astrarre alcuni elementi fissi delle nostre rappresentazioni

mentali. È quindi affascinante chiedersi quanto l’arte ci possa

aiutare a scoprire e comprendere i meccanismi cognitivi utilizzati

dal nostro cervello per l’esplorazione e la conoscenza del mondo

che ci circonda. La neuroestetica ha investigato, fino ad oggi,

principalmente l’arte visiva, perché la parte del cervello dedicata

alla visione è molto ampia e ben conosciuta. Pertanto, se da un

lato gli artisti di tutte le epoche si sono chiesti se esistano degli

universali delle forme, ossia degli elementi che costituiscono la parte

essenziale di tutte le forme alla ricerca delle caratteristiche invarianti

dell’oggetto, dall’altro le ricerche scientifiche hanno identificato

l’origine di alcune percezioni elementari comuni, a prescindere

dalla propria esperienza. Infatti, molte aree della corteccia visiva

si attivano in modo identico in tutti gli esseri umani quando sono

poste di fronte allo stesso oggetto. In questa prospettiva lo scopo

dell’arte non è una rappresentazione descrittiva bensì una ricerca

di emozioni tramite l’essenzialità dell’oggetto raffigurato ed è il

cervello che crea ciò che è costante ed essenziale. Allora conoscere i

meccanismi che permettono di apprezzare l’arte, studiare la natura

dell’esperienza estetica può aiutare a conoscere i meccanismi

della percezione e le strategie che il cervello usa nell’affrontare gli

158

stimoli esterni. Ecco che psicologi e neurobiologi parlano

comunemente di “costanza” in relazione alla visione dei colori,

delle forme e delle linee e il professor Zeki ha definito la sua legge

di costanza: “… quello che ci interessa sono gli aspetti essenziali e

persistenti degli oggetti e delle situazioni, ma l’informazione che

ci giunge non è mai costante. Il cervello deve quindi avere qualche

meccanismo per scartare i continui mutamenti ed estrarre dalle

informazioni che ci raggiungono soltanto ciò che è necessario

per ottenere conoscenza delle proprietà durevoli delle superfici”.

Connessa a questo principio è anche una legge di astrazione, il

processo con cui il cervello predilige il generale al particolare e

conduce alla realizzazione dei concetti da manifestare nell’opera

d’arte. L’arte è, infatti, una ricerca di costanti attraverso le forme

singole: dal particolare verso l’universale. Il dipinto di un oggetto,

quindi, rappresenta tutte le caratteristiche comuni a quell’oggetto e

ne costituisce la realtà perché si pone come universale sopra ogni

particolare. Gli artisti pertanto sono sempre impegnati nella ricerca

dell’essenziale, della essenza di una forma, la cosiddetta “costanza

di forma”. Alcune ricerche scientifiche si sono concentrate sulle

linee come forma predominante in molte opere d’arte moderna. Ed

oggi sappiamo che il nostro sistema visivo stimolato dai quadrati

di Malevich, dalle linee ortogonali di Mondrian, ma anche dalle

sculture incompiute di Michelangelo, si connette con dei neuroni

che rispondono solo alle righe con una particolare inclinazione, ed

altre che rispondono alle forme anche semplicemente abbozzate.

Recenti scoperte scientifiche hanno mostrato che nella corteccia

visiva predominano cellule che reagiscono selettivamente alle linee

con una inclinazione specifica e tali sistemi neurobiologici innati

condizionano inevitabilmente il nostro mondo visivo e la nostra

produzione artistica. La relazione tra Arte cinetica (in cui il

movimento reale è una componente dell’opera) e la fisiologia dell’area

specializzata alla percezione del movimento visivo è espressa

dal fatto che alcuni neuroni stimolati dalla visione reagiscono al

movimento multidirezionale, ma un maggior numero di neuroni

159

è selettivo per una direzione orientata in un determinato modo,

cioè risponde al movimento in un verso ma non a quello nel verso

opposto o a nessun movimento. Queste cellule sono indifferenti al

colore dello stimolo e molte sono indifferenti anche alla forma.

Nello sforzo di privilegiare il movimento, l’opera degli artisti cinetici

si sviluppò nella stessa direzione: accentuando il movimento e

depotenziando la forma ed il colore, adattando (senza saperlo) le

loro creazioni cinetiche alla fisiologia dell’area cerebrale visiva.

La potenza creatrice del cervello si manifesta in realtà in ogni

nostra esperienza quotidiana: ogni giorno apriamo gli occhi e

creiamo il mondo; qualcosa là fuori, quelli che per convenzione

vengono chiamati come oggetti, eccitano i nostri organi di senso,

e tale percetto, viene elaborato dal nostro cervello, per vie in gran

parte sconosciute, a configurare il dato fenomenico, la nostra realtà.

Senza il nostro cervello visivo il colore non esisterebbe, così come

non esisterebbe il suono senza i nostri organi di senso acustici.

Noi creiamo quotidianamente il mondo esterno come il pittore

crea la sua opera d’arte sulla tela o lo scrittore sulla pagina bianca.

La percezione finale non sono i dati grezzi che arrivano ai nostri

sensi dal mondo esterno, ma è un’immagine che combina tutti

questi segnali grezzi con la nostra memoria millenaria del mondo.

La nostra percezione diventa una predizione di ciò che dovrebbe

esserci là fuori, e tale predizione viene costantemente controllata

dall’azione. Per questo la neuroestetica, ovvero lo studio delle

basi neurobiologiche della creazione e della fruizione dell’opera

d’arte,rappresenta un modello sperimentale ideale per studiare tale

fenomeno di smontaggio, elaborazione e riconfigurazione dei dati

fenomenici che si chiama realtà. C’è quindi una grande analogia tra

la neuroscienza e l’arte: entrambi, per vie diverse, permettono di

“guardarci dentro” e guardare dentro agli altri. Guardarci dentro, in

tutti i sensi e attraverso tutte le vie (letterali o metaforiche) in cui

questo può avvenire, significa comprendere meglio noi stessi e il

mondo che ci circonda. Come il pittore crea il suo mondo, il cervello

rende possibile (e forse crea) la nostra percezione del mondo e di

160

noi stessi. Il cervello colora i ricordi, dà loro una tinta scura o

brillante, a seconda dello stato emotivo che li accompagna. Lo stesso

fa il pittore che sulla tela ci racconta un’esperienza a tinte fosche o

tenui, e riesce a trasmetterci quelle emozioni proprio perché, pur

nella immensa varietà delle persone, parla ad un cervello umano.

L’arte, quindi, fornisce un prezioso modello paradigmatico sul

funzionamento del nostro cervello, cosa che non a caso era già stata

suggerita da un artista del calibro di Paul Klee: “l’arte non riproduce

il visibile, rende le cose visibili”. Come è possibile conciliare la

libertà dell’espressione creativa con il rigore della scienza, o meglio,

in questo caso, della neuroscienza?

Le tecnologie oggi disponibili si avvalgono di vari strumenti e

procedure per la visualizzazione del cervello durante lo svolgersi di

certe attività da parte del soggetto. È proprio l’osservazione “in vivo”

che ha permesso di scoprire correlazioni costanti tra determinati

momenti della creazione artistica e lo “svegliarsi” di alcune aree

del sistema nervoso centrale. Oggi, infatti, grazie alla tecnologia

del neuroimaging è possibile visualizzare quali zone del cervello

si attivano o si disattivano quando un soggetto vive diverse

esperienze, come ad esempio quella amorosa, religiosa o, appunto,

artistica. L’ambizione di scoprire il funzionamento del cervello

nell’esperienza estetica è un obiettivo possibile grazie alle moderne

tecniche di neuroradiologia e neurofisiologia quali la risonanza

magnetica funzionale, la tomografia ad emissione di positroni,

la magneto encefalografia ed i potenziali evocati cognitivi. In

conclusione, nonostante le ricerche scientifiche abbiano fatto enormi

progressi ed oggi conosciamo molto meglio il funzionamento

del nostro cervello, gli specifici processi cognitivi che regolano le

relazioni sociali, ma anche la creazione artistica e l’apprezzamento

estetico sono in gran parte sconosciuti ed ancora oggi stimolano da

un lato la ricerca scientifica e dall’altro l’approfondimento culturale

e filosofico.

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USCITE A VELA GIORNALIERE

USCITE GIORNALIERE IN BARCA A VELA LIGURIA Genova + VENEZIA

Programma di massima delle uscite giornaliere in barca a vela
con massaggio e yoga in amaca Liguria + Venezia
La “giornata tipo” delle gite giornaliere in barca a vela
con massaggio e yoga in amaca inizia con l’imbarco in mattinata seguito da un breve briefing per presentare la barca e introdurre l’equipaggio alle manovre di base della navigazione a vela per poter navigare in sicurezza. Una volta verificato il meteo per definire la miglior destinazione, si è pronti per partire: l’escursione giornaliera in barca a vela prevede una prima fase di navigazione al mattino,
i massaggio aereo e mini corsi di yoga in amaca una sosta in rada per il pranzo e qualche ora di counseling su amaca relax per risolvere tutti i vostri desideri e si concluderà con la navigazione pomeridiana e il rientro in porto al tramonto per l’aperitivo.

Le escursioni giornaliere in barca a vela sono aperte a partecipanti di qualsiasi età ed esperienza, e la formula dell’uscita in giornata le rende un’attività particolarmente indicata per partecipanti alla prima esperienza: se avete paura di soffrire il mal di mare o di non riuscire ad adattarvi facilmente alla vita a bordo, le gite giornaliere in barca a vela con massaggio e yoga in amaca vi offrono la possibilità di provare questa esperienza senza eccessivi vincoli e di apprezzare al meglio il piacere della navigazione. L’attività è aperta sia a singoli iscritti che a gruppi.
Il numero minimo di partecipanti per confermare le escursioni giornaliere in barca a vela è di quattro persone.

Inoltre possiamo creare su richiesta degli itinerari e programmi personalizzati in base alle vostre esigenze, permettendo all’equipaggio di godere appieno della sensazione di libertà che solo l’andar per mare può dare.
Ti è piaciuta l’uscita giornaliera in barca a vela? Perchè non provare allora il week end in barca a vela scegliendo una delle nostre numerose soluzioni.

i miei allievi .. in giro per il mondo ...

Uscite in barca giornaliere nel mare di Roma (Ostia)!

Uscite serali al tramonto con aperitivo!

Lunedi, martedì , mercoledì , giovedì, venerdì   barca a VELA
con massaggio e yoga in amaca !

Corso di
con massaggio e yoga in amaca e corso ancora
fitness in amaca (1 giorno – clicca)

uscita a vela a Roma di un giorno Collegamenti:

delle uscite giornaliere  a vela a Ostia – Roma

Uscite serali con aperitivo

Prezzi delle Uscite a vela di un giorno

Uscita Regalo: Regala e regalati un’emozione!

un’uscita in barca a vela con massaggio in amaca sul boma e yoga della risata è un regalo bellissimo!

Non sei mai salita su una barca a vela?

Vuoi solo goderti un giorno di relax al sole e al vento?

Vuoi imparare la tecnica della navigazione a vela?

Vuoi provare l’emozione di essere al timone di una  barca a vela con massaggio in amaca sul boma e yoga della risata?

Vuoi fare pratica nelle manovre a vela?

 Idea Regalo uscita a velaUn’Idea REGALO ORIGINALE? Regala un’uscita in barca a vela con massaggio in amaca e yoga aereo sulla barca in navigazione!

Insomma, per qualsiasi motivo tu voglia salire su una barca a vela, partecipa alle uscite a vela giornaliere a Ostia della associazione barca a vela con massaggio in amaca sul boma e yoga della risata!

In questa pagina puoi trovare il calendario delle uscite in barca a vela con massaggio in amaca sul boma e yoga della risata a Ostia a breve termine e il tipo di uscita.

Uscita giornaliera a vela di un giorno a Ostia

Le uscite in barca a vela con massaggio in amaca sul boma e yoga della risata giornaliere si possono effettuare nei weekend o nei giorni feriali.

Nella bella stagione le uscite a vela nel weekend si organizzano con preavviso di 2-3 giorni mentre per i giorni feriali, da lunedì a giovedì, si possono programmare con maggiore anticipo.

Il lunedi, martedì , mercoledì , giovedì, venerdì  è il giorno standard delle uscite a vela nei giorni feriali.

Il calendario delle uscite a vela di un giorno riportato sotto viene regolarmente aggiornato.

Se vuoi puoi ricevere gli aggiornamenti delle date sul tuo cellulare tramite whatsapp:

INVIACI il tuo numero ed inserisci il nostro (3294167403 ) nella tua rubrica telefonica (altrimenti il msg non arriva).

Potrai cancellarti in ogni momento.

uscite a vela regalo di un giorno a Roma - OstiaCOSTO DELLE USCITE A VELA GIORNALIERE

Le uscite a vela giornaliere costano 45 euro a persona per la prima uscita (comprendono la tessera associativa) e 35 euro le successive nell’anno in corso.

Senza fare la tessera l’uscita costa 40 euro a persona.

Occorrono almeno 5 adesioni per poter dare conferma, massimo si esce in 8-10 persone + lo skipper-istruttore.

E’ anche possibile uscire un giorno in barca con un proprio gruppo al di sotto del numero minimo di partecipanti e senza altre persone aggiunte: in questo caso concorderemo direttamente un prezzo forfettario. Il prezzo delle uscite a vela a forfait nei giorni feriali è generalmente più economico. Per situazioni particolari offriamo prezzi particolari!

Se ti vuoi aggregare ad altre persone cercheremo noi di formare un gruppo per raggiungere il numero minimo di partecipanti per poter effettuare l’uscita in barca a vela.

Nel periodo invernale il costo delle uscite è di euro 35 per i non soci, euro 30 per i soci.

Uscite a vela giornaliere didattiche

Le uscite giornaliere a vela sono, per chi vorrà imparare la tecnica della vela, anche uscite-scuola: si imparano i primi rudimenti teorici, si può condurre l’imbarcazione al timone e si possono toccare aspetti specifici secondo la propria preparazione ed esperienza. Il tutto nel piacere rilassato della navigazione a vela.

Pranzo al sacco, se le condizioni lo permettono si può organizzare un aperitivo in navigazione oppure dopo essere rientrati all’ormeggio.

Orari delle uscite giornaliere

Orario Invernale: 10:30-15:30 circa

Orario Estivo-2 possibilità: 9:00-13:30 oppure 14:00-18:30

USCITE A VELA CON APERITIVO AL TRAMONTO  (per info e date clicca QUI)

Uscita a vela con aperiivo al tramontoLe uscite a vela con aperitivo al tramonto si effettuano nel periodo estivo (a richiesta anche nel resto dell’anno).

Prezzo Uscita con aperitivo: 25 euro per i soci, 30 non soci.

Imbarco a partire dalle ore 18:00

Un ottimo modo per iniziare il fine settimana nella suggestione del mare al tramonto a vela.

Condizioni Meteo E’ lo skipper-istruttore a decidere se ci sono le condizioni meteomarine adatte all’uscita a vela. La verifica finale delle condizioni presenti è fatta sul posto al momento dell’appuntamento. Nel caso non si esca per meteo avverso nulla sarà dovuto. Nuvolosità o minaccia di pioggia non sono considerati motivi sufficienti per non presentarsi all’appuntamento. In caso di disdetta a meno di 24 ore dall’appuntamento sarà comunque dovuto il 50% dell’importo.

Le uscite a vela si svolgono davanti al litorale romano senza una meta particolare, l’itinerario lo decide il vento! Imbarco al Porto di Roma (Ostia), o dalla vicina foce del Tevere, lato Ostia, il porto naturale di Fiumara Grande.

E’ possibile uscire anche nei giorni feriali. Siamo disponibili ad uscire in barca a vela con massaggio in amaca sul boma e yoga della risata anche nei giorni feriali, con preferenza ai giorni dal lunedì al lunedi, martedì , mercoledì , giovedì, venerdì  (a partire da marzo  indistintamente in tutti i giorni)!

PRENOTA oppure CONTATTACI  3294167403 e organizzeremo insieme.

LE PROSSIME USCITE GIORNALIERE IN BARCA A VELA

un giorno a vela a Ostia – 2019